
Del primato dell’arabesco
Il pittore, quando ancora dipinga, usa la tela. Lo spazio della pittura è quindi massimamente uno spazio tessile sul quale si condensano colori, forme e figure d’invenzione.
Oggi spesso il pittore incolla, ovvero pratica quell’arte dell’assemblaggio di materie e di colori che viene definito collage. Ho incollato a iosa nastri, trine, passamani, bordi, cordoni, fiocchi, merletti, corde, spaghi, bindelli, galloni e ogni altra divagazione dell’arte del tramare e del ricamare. Mario Martinelli, al quale mi unisce una sorta di empatia tessile, come Penelope passa la notte a disfare tele e canovacci, quasi per restituire a fibra il tessuto, e da fili, fiocchi e cascami sfusi e sfilacciati, che sembrano scaturire da tubetti di colore, trae la sua splendida materia, il pigmento e le variazioni cromatiche. Le sue opere si realizzano attraverso un guazzabuglio di fili e filetti, un ghirigoro continuo di cordami, di matasse, di incroci, di nodi, di lane, di orditi aggrovigliati, arruffati, abbindolati, affaldellati, intrecciati e intrigrati. Sembra che la mano dell’artista fili la lana e poi tiri per dipanare, scrudire, sfilare, sfioccare e torcere bave e filamenti. Pelose ciniglie taglian la strada a cordelline e dragone mentre funi e cingoli alzano lo sbarramento.
Ogni opera è tutta rabescata: è un arabesco che diviene delicata metafora dello spirito, un labirintico percorso che ti mena all’assoluto.
Come Baudelaire, io amo non tanto le dritte linee geometriche e gli angoli retti, ma piuttosto “tutte le curve e le figure immaginarie che si disegnano nello spazio”.
L’arabesco ha il potere di evocare forme, territori, segni e sogni.
L’arabesco mette in moto la fantasia, l’ispirazione e la statica contemplazione.
L’arabesco è produzione di inconscio, cioè di immaginario.
Mario Martinelli, in effetti, è un filosofo un po’ più profondo dei minimalisti. Come Emanuele Kant, identifica con l’arabesco la pura bellezza.