Richard Long (1943) dagli anni ’60 ha attinto alle cave locali e ne ha trasportato gli elementi, organizzandoli in figure geometriche, ed esponendoli in musei e gallerie “per rendere visibile la propria esperienza del mondo”, scrive Germano Celant, non aspirando a inventare nuove figurazioni e nuove forme.
Così io (1944) dalla fine degli anni ’60, raccoglievo dalle case del mio territorio gli scarti del diffuso lavoro tessile domestico e li usavo come materia prima dei miei lavori che rendevano testimonianza della trasformazione socio-economica di quegli anni. Erano gli Stessuti.
Da noi, nel trevigiano, era l’epoca dei metal-mezzadri, gente indigente culturalmente – racconta Andrea Zanzotto – concentrati solo a fare quattrini in un patto faustiano: tanti soldi in cambio dell’anima, “In questo progresso scorsoio – scriveva il poeta – non so se vengo ingoiato o ingoio”.
Furono anni di radicale cambiamento. Insieme a tanti altri lavori, oltre quello dei campi, molte famiglie si applicavano al telaio, spesso di sera, tirando tardi fino alle ore piccole in cui, nel tinello operoso e assonnato, si alzavano pile di magliette coloratissime (il vestire colorato nasceva allora, nella Treviso antica “urbs picta”) e, in un angolo, si accumulava un curioso materiale trash, gli scarti fatti di morbidi grovigli di fili s-tessuti, coloratissimi e ondulati per l’impronta conservata dalla lavorazione da cui erano stati liberati.
Io frequentavo Lettere e Filosofia all’Università di Padova, dipingevo da sempre, ma nel ’69 (la pittura diventata un elemento futile) avevo mandato a un concorso universitario una tela bianca tutta sfilacciata e ricomposta casualmente a esibire agli spot dell’esposizione un corpo lacerato, dis-ordinato, per ricominciare da capo. La scoperta del prezioso materiale di scarto regalava alle mie tele un corpo nuovo e stimolante. Come l’ultimo Tiziano “espressionista” raccontato dall’allievo Palma il Giovane, mi trovavo a “dipingere” direttamente con le mani, districando gli arruffati grovigli su un piano dove costituivano insieme la tela e la pittura. Una tela morbida, calda e disordinata che comunica per empatia col corpo dello spettatore e una pittura di vivezza straordinaria suscitata dalle vibrazioni della luce che penetra nello spessore della materia accendendo i fili coloratissimi. Al posto della superficie piatta e dipinta la tela, espone ciò che idealmente sta sotto alla pelle: un campo dinamico di fili disordinati, di pieno e di vuoto, di visibile e di nascosto. A volte coinvolto con altri materiali, fili di neon, aste di acciaio corten, blocchi di cemento, frammenti di rete, in una vicendevole esaltazione dell’espressione.
Erano gli anni della Pop Art, del Nouveau Réalisme, dell’Arte Povera, di Fluxus. Venezia frequentata assiduamente per motivi di studio, coi suoi spazi vuoti, teatri di luci e d’ombre, e con tutta la sua tradizione, suggeriva una nuova estetica orientaleggiante col suo gusto per l’immaterialità motore di nuove ricerche.
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