Già prima che negli anni ’60 si affermasse l’estetica del vuoto, il trevigiano Arturo Martini nella sua ultima produzione, mentre io nascevo, cercò di liberarsi dal peso della materia. Alberto Giacometti scriveva: “la scultura riposa sul vuoto”, e da allora riduceva talmente la materia da rasentare la fili-forma. E’ Alexander Calder a produrre ormai sculture in filo di ferro, che diventano anche giochi, i mobiles fluttuanti nel vuoto. Mentre da noi, Achille Bonito Oliva deve scrivere: “si sa che la scultura è un genere che vuole essere perdonato per il suo ingombro e occupazione di suolo”.
Fatta quasi solo di vuoto, la rete (filo che scorre, nodi che costruiscono forme, vuoti che catturano) è una materia-metafora del mondo il quale oggi sembra essere un vuoto tenuto dentro una “rete” di maglia larghissima e dominato dal movimento incessante. La coscienza di ciò suscita un sentimento di impermanenza che travolge anche l’immagine dell’uomo la quale è posta su una tale catasta di figurazioni che spesso si sente il bisogno di cancellare per averne una propria, adeguata, “prima visione”.
Il poeta Rilke dice che per noi vivere è un venir meno, svaporare, consumarci: noi passiamo in mezzo alle cose che restano, come aria che cambia. Di qui il sentimento di perdita, della scomparsa, dell’assenza, che per la filosofa Susan Sontag è alla base del nostro bisogno di figurazione.
L’ombra come traccia della svaporazione del corpo e sua impronta profonda e, ahimé, passeggera, è l’oggetto di questa nuova figurazione. C’è più enigma nell’ombra di un uomo che cammina al sole che in tutto l’universo, scriveva Giorgio De Chirico.
Altri lavori
L’ombra in rete è una figura, un oggetto che nasce dall’impronta dell’ombra che gli ha dato la forma e che non c’è più, e la mantiene visibile anche dopo la sua scomparsa. Il venir meno è l’occasione dell’atto figurativo, la ragione del ritratto, dell’ombra in rete, dove l’immagine è ciò che trattiene l’assente. Susan Sontag chiamerebbe l’ombra in rete: una pseudo presenza e l’indicazione di un’assenza (l’Ombra di Lucio Dalla sul muro della sua casa a Bologna, è così fotografata che ogni foto ne rinforza l’aura, direbbe Don De Lillo, in un’accumulazione di energie ignote). Scrigno trasparente, abitato dall’ombra scomparsa, di cui pian piano può fare le veci. Ha l’aspetto di un graffito plastico che è come il bicchiere del mitico Laozi in cui quello che conta è quello che non c’è, il vuoto. Come l’ombra, questa figura in rete non ha contorno, ed è trasparente, ma con la forza discreta del suo linguaggio sintetico, privo dei colori e dei particolari della “cucina dell’artista”, aggancia l’attenzione dello spettatore che poi lascia solo, nel silenzio tra le maglie vuote della rete. Che lo sollecitano a collaborare, con la sua percezione, intuizione e memoria, instaurando con l’opera un rapporto che è, in fondo, un dialogo con sé stessi.
Proprio come il lettore di Proust che è lettore di sé.